PALLONCINI, PEZZE VECCHIE e “MOPLEN”

Una bellissimo articolo di Valentino Losito che nè ha autorizzato la pubblicazione.

 

L’Italia è un popolo di santi, poeti, navigatori e al Sud anche di processioni. E se non tutti hanno santi in paradiso, nel Belpaese dei mille campanili tutti hanno un santo patrono al proprio paese. Soprattutto in passato le feste patronali rappresentavano un momento di partecipazione e convivialità, con celebrazioni che potevano durare anche più giorni e coinvolgevano tutti, dai bambini agli anziani.

 Da una parte la chiesa, dove si elevavano suppliche e si compivano voti nella luce tremante delle migliaia di ceri accesi da solerti chierichetti, dall’altra il clima da sagra paesana, la folla che si accalcava innanzi alle colorite bancarelle di dolciumi e frittelle, caldarroste e zucchero filato. E poi le giostre per far divertire ragazzi e bambini, sfarzose luminarie, concerti di cantanti e complessi bandistici, e spettacolare conclusione con gli immancabili fuochi d’artificio. Momento culminante era la processione del santo per le strade della città, un evento religioso molto sentito soprattutto tra le persone più anziane, che facevano a gara con le sedie portate da casa per sedersi in prima fila. Quando il paese era in festa, lo si incontrava sempre quell’uomo un po’ misterioso e un po’ mago: il venditore dei palloncini. Era lui a chiudere il corteo della processione, subito dopo la banda, con la musica che sembrava avvolgere quel grappolo colorato che accendeva la fantasia dei bambini. Il fascino dei palloncini era irresistibile, almeno quanto quello delle giostre e dello zucchero filato. I bambini fissavano i palloncini che si muovevano da una parte all’altra e iniziava allora il tira e molla soprattutto con le mamme che non volevano comprarglieli perché erano troppo costosi. Speso erano i nonni a fare da pazienti e generosi mediatori e concedevano il palloncino, ma solo dopo che il bambino aveva giurato obbedienza alla mamma e aver promesso di mangiare tutta la frutta dopo ogni pasto. E così il venditore legava il palloncino al polso dei piccoli e a loro sembrava di essere un re o una regina che aveva vinto la guerra.
Nel mio paese - se la memoria mi inganna – l’uomo dei palloncini era anche quello delle pezze vecchie, un personaggio che attraversava i quartieri per effettuare una raccolta quasi porta a porta, con un carretto trascinato da un asino o da un mulo e poi dai primi camioncini sormontati da un megafono. Le stoffe, ridotte a brandelli, come i pantaloni, le maglie, le gonne, le camicie, che ormai non potevano essere ulteriormente rattoppate o cucite con delle toppe venivano accumulate e conservate nelle famiglie, per poi consegnarle all’uomo delle pezze vecchie. In cambio, come il baratto, le donne del paese ricevevano oggetti in plastica di uso domestico: la bagnarola, il secchio, la vaschetta, l’imbuto. A volte gli stracci si pesavano con la stadera, una bilancia portatile con un piatto in rame e un'asta di legno orizzontale. Era il “robivecchi che te chiede un po' de stracci” cantato anche da Antonello Venditti nel suo brano “Roma capoccia”.
Già, i primi oggetti in plastica. Oggi sui media la plastica è il male dei mali, ma allora, nei primi anni ’60 sui media la plastica era il bene dei beni. Fu grazie alla collaborazione tra il Politecnico di Milano e la Montecatini che l'11 marzo 1954 fu scoperto il “Moplen”, il polipropilene isotattico, leggero e resistente. Rivoluzionò la vita delle persone, trainando il progresso economico e sociale dell'Italia: scolapasta, spremiagrumi, assi per lavare, ai tempi in cui nelle case non c'era la lavatrice, secchi, vaschette, cestini e pettini. L’invenzione valse il premio Nobel per la chimica nel 1963 all’ingegnere imperiese Giulio Natta che, amava ripetere: “Ho trovato il modo di mettere in fila le molecole come soldatini in parata».
Fu Gino Bramieri a far entrare il Moplen nel lessico degli italiani con il famoso ed esilarante Carosello in cui l’attore, ancora in forte sovrappeso, alla domanda “E mo’?” risponde “E mo’ Moplen?” saltando con la forza della sua debordante massa su una valigia di questo materiale resistente, ovviamente senza nemmeno graffiarla. Dopodiché il grande Gino si rivolgeva alle spettatrici con la sua impareggiabile simpatia: “E signora badi bene che sia fatta di Moplen!”.
Era l’Italia che stava davvero cambiando i suoi stili di vita, cominciavano le trasmissioni televisive, le donne uscivano di casa per andare in ufficio, la fabbrica inglobava la maggior parte della forza lavoro che aveva abbandonato la campagna per dare impulso allo sviluppo tecnologico e industriale. La plastica arrivava nelle case degli italiani e dilagava, dai secchi ai guanti alle sedie: una serie infinita di oggetti abbandonava i materiali originari per quelli sintetici, la plastica era moderna, pulita, colorata e soprattutto, economica. Costava poco ed era alla portata di tutti, era flessibile e si potevano fare oggetti nuovi, invenzioni prima inconcepibili, prendeva la forma che le si voleva dare, incarnando a meraviglia l’ideale della società dei consumi. Per comprendere il ruolo della plastica nell’immaginario di quei tempi, pensiamo al celebre film “Il Laureato”, in cui il socio del padre del protagonista, un giovanissimo Dustin Hoffman, si rivolge al ragazzo con il tono di chi gli sta dando un consiglio prezioso che gli aprirà le porte del successo, e gli dice: “Ti dico solo una parola: Plastica!”
In quegli anni la plastica in tutte le sue forme, trionfò in modo assoluto e divenne un materiale privilegiato per le sue virtù di infrangibilità, leggerezza ed economicità, portando un senso di libertà e anticonformismo anche nel mondo della moda, del design e dell’architettura. Per i designer attuali, è uno stile intramontabile, fonte d’ispirazione per molti oggetti che vengono riproposti dalle aziende. Oggi, per arredare una casa vintage in stile anni ’60, c’è chi gira tra i mercatini delle pulci alla ricerca di qualche bel pezzo originale di quegli anni.

 

 

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